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"TBC: rischio maggiore per i migranti, che però si ammalano in Europa" - Sul Corriere della Sera intervista a Giovanni Baglio, epidemiologo INMP

"TBC: rischio maggiore per i migranti, che però si ammalano in Europa" - Sul Corriere della Sera intervista a Giovanni Baglio, epidemiologo INMP

La Giornata mondiale della tubercolosi riaccende i riflettori su una malattia di cui si parla troppo poco e che colpisce soprattutto le fasce sociali più svantaggiate

di Roberta Villa

(...) Per contrarla (la tubercolosi) è certo indispensabile il Mycobacterium tuberculosis, il microrganismo di cui Robert Koch annunciò la scoperta il 24 marzo 1882, data per questo scelta ogni anno per intensificare la lotta alla malattia. Perché il micobatterio passi da una persona a un’altra occorre però un contatto stretto e prolungato, in un ambiente chiuso. Anche così, poi, nella maggior parte dei casi, l’infezione passa inosservata. Perché provochi sintomi e danneggi l’organismo occorre che le difese dell’individuo siano in qualche modo compromesse da altre malattie, da farmaci o, più semplicemente, dalla malnutrizione e da condizioni di vita scadenti.

Gli stranieri si ammalano qui
È anche per questo che più del 60 per cento dei 3.153 casi di tubercolosi notificati nel 2013 in Italia sono stati diagnosticati in stranieri. «Ma questo non deve far pensare che arrivando sul nostro territorio queste persone rappresentino una minaccia, perché “portano la malattia”, come spesso si sente dire» spiega Giovanni Baglio, epidemiologo dell’Istituto Nazionale Salute Migrazione e Povertà (INMP) di Roma, «Anzi, la stragrande maggioranza di coloro che vengono a cercare lavoro in Europa partono in ottime condizioni di salute: se soffrissero di tubercolosi in forma conclamata, e quindi infettiva, non potrebbero resistere al viaggio». Il sistema di sorveglianza messo in atto dall’Istituto superiore di sanità su circa 5.000 persone nei Centri di accoglienza non ha trovato casi di tubercolosi tra i cosiddetti “migranti forzati”, che scappano da condizioni di guerra, persecuzione o carestia, sui barconi che attraversano il Mediterraneo. «E anche un’altra rilevazione epidemiologica, a cui ha partecipato il nostro Centro, su 4.000 persone in transito per Roma verso i Paesi del Nord Europa, non ne ha trovata nemmeno una che manifestasse la malattia». Una volta arrivati qui, tuttavia, l’iniziale patrimonio di salute degli immigrati si dilapida facilmente: condizioni igieniche scadenti, sovraffollamento, malnutrizione fanno sì che i microrganismi eventualmente latenti si possano risvegliare, e trasmettere tra chi vive insieme a loro. «La possibilità che venga contagiato, e soprattutto che sviluppi la malattia, chi vive in una situazione di relativo benessere è invece molto bassa» precisa l’esperto. Negli ultimi dieci anni infatti il numero totale dei casi si è mantenuto abbastanza stabile: è cresciuto tra gli immigrati, rispecchiando l’aumento della loro presenza sul territorio, mentre il rischio di ammalarsi per loro come per gli italiani si è addirittura ridotto.

Intervenire si deve ma costa
Garantire a tutti condizioni di vita accettabili è quindi la prima arma da utilizzare contro la malattia, ma a questa occorre affiancare un sistema di monitoraggio che permetta di individuare e trattare rapidamente i casi sospetti: «Alla luce di quel che si è detto, sottoporre tutti i nuovi arrivati al test non avrebbe senso» conclude Baglio. «Molti potrebbero risultare positivi per essere venuti in contatto con l’agente infettivo senza per questo richiedere cure. Invece è fondamentale un sistema di sorveglianza per cui, non appena si manifestano i sintomi, il paziente venga riconosciuto e sottoposto ai trattamenti. Poiché questi durano settimane e mesi, occorrerebbe poi organizzare un sistema di presa in carico che consenta di seguire il malato nei suoi eventuali spostamenti, frequenti in questa popolazione». La terapia è poi ancora più difficile, lunga, e carica di effetti collaterali nel caso di forme resistenti ai farmaci, la cosiddetta MDR-TB, che secondo il rapporto raggiungerebbe in Europa il 38 per cento dei casi in popolazioni a rischio come gli immigrati, appunto, o i carcerati. In Italia la percentuale di forme resistenti è in totale del 3,3 per cento, di cui il 9 per cento estremamente resistente (XDR-TB). Un fenomeno considerato da molti esperti una delle più gravi minacce per la salute globale e soprattutto della Regione europea, l’area più colpita al mondo. «Ancora oggi solo la metà dei pazienti con forme di tubercolosi multiresistenti ai farmaci ricevono una diagnosi, e soltanto la metà di questi viene curata con successo» ha dichiarato Zsuzsanna Jakab, direttore della Regione Europea dell’OMS. «Occorre quindi incrementare in maniera consistente l’accesso a nuovi farmaci sicuri ed efficaci, oltre che a test diagnostici rapidi e a un processo di cura incentrato sul paziente». Ma per curarsi i malati devono stare ricoverati a lungo e astenersi dal lavoro, con un impatto sociale ed economico ancora maggiore per le fasce di popolazione più vulnerabili. (...)

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